29 luglio 2008

Una mostra per risvegliarci dal "sonno della memoria"

Ad Abbadia San Salvatore le immagini di quel lontano 14 luglio del Quarantotto

Fu una “rivoluzione mancata”? O fu, invece, una coraggiosa e pronta risposta delle masse popolari a chi, attentando alla vita di Palmiro Togliatti amato capo dei comunisti italiani, voleva colpire la libertà democratica appena conquistata? Per mezzo secolo generazioni di comunisti e di democristiani - ma anche gli studiosi di storia contemporanea - si sono confrontati sulla questione. Dietro le dispute non c’erano, come sappiamo, solo diverse letture storiche degli accadimenti (l’attentato a Togliatti e le drammatiche giornate di quel luglio infuocato) ma anche giudizi che i due maggiori partiti davano sul quadro politico nazionale e sugli scenari internazionali.
Era un’altra Italia, quella. Era una nazione che con eccessiva e obbligata rapidità si era gettata alle spalle lo spirito unitario che aveva animato gran parte dei movimenti di liberazione nazionale; una nazione profondamente divisa in un mondo si cui si stavano erigendo i robusti muri della guerra fredda. Si stava “di qua o di là”, con miti contrapposti sia nelle grandi scelte che nella vita di tutti i giorni: America o Russia, Coppi o Bartali, Vespa o Lambretta. Per oltre mezzo secolo, da quell’estate del Quarantotto, due “sub-culture”, cattolica e comunista (l’espressione è mutuata da un attento studioso di media, Carlo Sorrentino) hanno formato uno schema mentale, politico e ideologico, che ha garantito la sopravvivenza e lo sviluppo del nostro sistema democratico togliendo però linfa riformatrice e cristallizzando le classi dirigenti. Oggi quel paradigma ideologico è stato gettato alle ortiche e questo ci permette di apprezzare a pieno anche la mostra fotografica realizzata dal Centro culturale Polis e dal Comune di Abbadia San Salvatore sui drammatici fatti del ‘48. Non a caso, in una sorta di “avvertenza per l’uso” Franco Ceccuzzi, presentandola, scrive: “La rievocazione non ha alcun carattere ideologico o apologetico, e meno che mai, può avere l’ambizione di una rilettura storiografica… Sbaglierebbe chi si sentisse ancora oggi da una parte o dall’altra della barricata rispetto al 18 aprile del ’48 o al 14 luglio, o alla collocazione internazionale di quegli anni”.

“I RIBELLI DELLA MONTAGNA”
Rivedere quelle foto e cavalcare la cronaca di quei giorni è istruttivo per i giovani ma è scioccante per quelli, come me, che conoscono a menadito quel terribile tratto della nostra storia nazionale: la sequenza delle foto ti immerge, infatti, tra volti conosciuti e parole consuete. Si è come catapultati nei meandri della memoria. A chi si iscriveva al PCI sull’Amiata alla fine degli anni Sessanta del Novecento quelle storie venivano raccontate dagli stessi protagonisti nelle “veglie” in sezione o durante le Feste de l’Unità (è giusto che nel convegno - già annunciato dagli stessi organizzatori per il prossimo ottobre - venga dato ampio spazio alle testimonianze orali di coloro che vissero quelle giornate) e comunque rappresentavano una sorta di filo rosso con il quale si intrecciavano appartenenze e dispute teoriche.
Quando Gino Serafini, nei primi anni Ottanta, pubblicò un volume sul tema rifiorirono fitte conversazioni pubbliche e di gruppo sui “ribelli della montagna”. Il confronto riguardava non solo l’anatomia della rivolta ma il contesto nazionale e locale in cui quei fatti erano avvenuti e più in generale alcuni tratti sociologici e antropologici delle stesse genti della montagna, proprio in quegli anni alle prese con una delle più gravi crisi del comparto minerario. In quegli stessi anni si rinfocolò anche la passione per la figura di David Lazzaretti quale espressione alta e libera del “ribellismo” di quelle popolazioni. Era stato, a dire il vero, lo stesso segretario comunista a citare, nel discorso che tenne ad Abbadia subito dopo la sua guarigione nel giugno del ‘49, la figura del “profeta”. Davanti alle folle che lo acclamavano Togliatti, con il forte senso propagandistico che caratterizzava i suoi comizi, quasi si immedesimò in quella figura epica. Scrive Tommaso Detti nella prefazione del libro di Gino Serafini: “Certo, paragonando implicitamente se stesso al “santo Davide”, il capo del PCI dava prova di una buona dose di spregiudicatezza; ma quando accostava i fatti del 14 luglio a quell’episodio ormai lontano della storia del Monte Amiata, egli non si limitava a sollecitare l’emotività dei suoi ascoltatori, né indulgeva soltanto sulla propria formazione storicistica. Benché fosse mosso da un preciso intento politico, Togliatti sapeva bene che la grande forza del suo partito e dell’intero movimento operaio italiano - specie in una regione come la Toscana e in una zona come il Monte Amiata - riposava in gran parte sulla loro capacità di innestarsi su movimenti di lotta e correnti ideali preesistenti e di assorbirli”.

MA FU DAVVERO UN’INSURREZIONE?
Quella discussione ne riprendeva altre che si erano andate ciclicamente ripetendo ogni qualvolta studiosi o politici toccavano l’argomento. Era stato così, ad esempio, quando Sandro Orlandini, nel 1976, con un suo libro aveva posto un interrogativo che aveva molto turbato i dirigenti comunisti di allora: la risposta popolare all’attentato a Togliatti, e le forme che aveva assunto in provincia di Siena, poteva esser letta come un tentativo di “insurrezione proletaria”? Vittorio Bardini, che nel ‘48 si trovava alla testa dei comunisti toscani, un anno dopo, replicava con un libro autobiografico che non si poteva parlare di insurrezione giacché i fatti dimostravano che era stato proprio l’intervento dei dirigenti di partito ad impedire che la situazione degenerasse ulteriormente.
Su un punto tutti i commentatori ormai convengono: la durezza dello scontro elettorale dell’aprile di quello stesso anno con la grande disillusione del Fronte Popolare e la grande vittoria della DC di De Gasperi, la rottura dell’unità sindacale e quella ben più drammatica dell’unità nazionale, l’inizio della guerra fredda erano bombe ad orologeria che prima o poi sarebbero deflagrate provando drammi e lutti. La tensione accumulatasi durante la campagna elettorale del 1948 esplose il 14 luglio quando un giovane di destra, Antonio Pallante, attentò alla vita di Togliatti ferendolo gravemente. In alcune città scoppiarono rivolte spontanee, in molte fabbriche i lavoratori incrociarono le braccia, l’intero Paese fu scosso nella profonda della sua anima. “Le ore undici del quattordici luglio/ Dalla Camera usciva Togliatti/ Quattro colpi gli furono sparati/ Da uno studente vile e senza cuor…” così recita la prima strofa di una canzone popolare che per anni fu cantata in tutte le piazze e le Case del Popolo e recentemente riproposta da Francesco De Gregori e Giovanna Marini.

LE IMMAGINI DELLA DURA REPRESSIONE
La reazione più violenta si ebbe proprio ad Abbadia San Salvatore “dove i minatori insorsero - come racconta Aurelio Lepre ne “La storia della Prima Repubblica” - uccidendo un poliziotto e un carabiniere e interrompendo i contatti telefonici tra Nord e Sud”. La repressione fu dura e immediata: ad Abbadia San Salvatore intervennero polizia ed esercito. “Un cinegiornale Incom di quei giorni - scrive ancora Lepre - mostra le colonne motorizzate occupare il paese: l’immagine dei minatori portati via tra i poliziotti e gli agenti come prigionieri di guerra aveva un valore di dissuasione per le sinistre e di rassicurazione per i moderati”. Sono le stesse foto che corredavano la sfrontata inchiesta de L’Europeo e che fecero il giro dei rotocalchi di tutto il mondo.In un recente volume Stefano Rolando, studioso di comunicazione pubblica, ha tentato un bilancio generazionale di coloro che hanno attraversato oltre mezzo secolo di democrazia per approdare, come dei moderni Ulisse, laddove la barca doveva essere approdata, senza fati maligni e venti avversi, già da tanto tempo. Dice Stefano Rolando di averlo scritto proprio per reagire al “sonno della memoria che pesa sul nostro passato prossimo”. Le stesse parole possiamo spenderle per iniziative come quella di Abbadia San Salvatore.

2 giugno 2008

Rancore e identità

Molti osservatori ritengono che il rancore abbia giocato un ruolo importante nel comportamento elettorale degli italiani. Un rancore di tantissimi elettori verso i Palazzi o verso l’indistinta Casta; rancore per tasse ritenute troppo esose o per provvedimenti di riforma male sopportati da questa o da quella lobby ( vi ricordate la ribellione dei tassisti di Roma?); rancore per uno Stato incapace di difendere i cittadini dal caos e dalla violenza importata dai nuovi barbari, immigrati o rom che fossero.
Ma cos’è il rancore? Così lo definisce Tullio De Mauro nel suo Dizionario: "sentimento di avversione profonda, di risentimento verso una persona, un ambiente, una situazione, maturato in seguito ad una offesa o a un torto e non manifestato apertamente”. Questo sentimento sembra essere uno dei tratti unificanti della nuova ondata populistica che ha premiato il centro destra e che sta contrassegnando molti comportamenti sociali di queste settimane, dall’inquietante vicenda del quartiere romano del Pigneto alle prepotenze dei nuovi neo-nazi all’Università La Sapienza.
Staremmo dunque attraversando una fase nella quale parti consistenti di cittadini mal sopportano i disagi economici e le frustrazioni politiche derivanti dai profondi cambiamenti in atto come, ad esempio, quelli provocati dalla globalizzazione e dalle massicce migrazioni che ne derivano. In queste fasi di regresso sociale la nostalgia di "comunità" può portare ad un diffuso risentimento verso tutti coloro che la ostacolano o che la minacciano.
In un libro che sta avendo riscontro sia tra i lettori che tra gli analisti politici, Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, Aldo Bonomi traccia i luoghi e individua i fattori del profondo cambiamento che ha investito il Nord Italia, una sorta di “Apocalisse culturale” nella quale si sono alimentati i tanti malesseri sui quali la Lega di Bossi ha costruito le proprie fortune politiche ed elettorali. Un’apocalisse nella quale molti si sono sentiti orfani della politica che si praticava nella grande fabbrica fordista (pensiamo alle divagazioni - anche in campagna elettorale - di certa sinistra radicale o ai disagi che ne sono derivati al sindacato). Un'apocalisse che ha creato città senza limiti, fatte di non luoghi dove le persone non riconoscono più i posti abituali, dalle strade alle piazze, con le comunità che le abitavano. Città estranee per di più occupate da stranieri portati dal vento della globalizzazione, lo stesso vento che la Lega di Bossi ha per prima fatto sponda a questo malessere, proponendo una versione più radicale e più raffinata della già nota proposta politica basata sull'identità. Berlusconi, con indiscusso fiuto politico, ha offerto una cornice ideologica a queste spinte leghiste, con la teoria “dell’individualismo proprietario” e il peso del suo potere mediatico. Infine l’abile Tremonti ha chiuso il cerchio offrendo una visione economica e sociale di chiara marca protezionistica agli effetti più negativi della globalizzazione: una risposta rilevante, forse l’unica venuta dalla destra italiana, alle elaborazioni dei “no global” di qualche tempo fa.
Insomma, parafrasando il vecchio Marx, potremmo recitare: "spaventati di tutto il mondo unitevi". Unitevi per esaltare il localismo e l'intoccabilità del giardino di casa (per poi, magari, pagarne le conseguenze come in Campania); unitevi contro ogni forma di diversità; unitevi contro chi minaccia la vostra sicurezza; unitevi contro il pericolo dei barbari che ci circondano e che minacciano la nostra integrità. “Combattere qualcuno - ha recentemente ricordato Umberto Eco - è anche un modo per definire la nostra identità”. Cosa ci dicono le "ronde verdi" a Colle Val d’Elsa, se non questo?
Anche Barbara Spinelli, commentando il risultato del voto su La Stampa, ritiene che tra le cause della vittoria del centro destra debba essere inserito il risentimento: “... Tra esse c’è il risentimento, questa passione che dà immenso ardimento all’individuo che si sente abbandonato e solo nella società, e che il massimo della potenza la raggiunge quando diventa risentimento territoriale, tribale, di classe”.
Il diffuso senso di risentimento e di rancore (contro il quale tutta la sinistra, compresa quella locale, dovrebbe prontamente vaccinarsi) è dunque una delle cause che sta alla base dell’antipolitica e porta, chi lo pratica, ad individuare nelle caste e nelle castarelle i nemici da combattere. Ma chi ne trae vantaggio? L’antipolitica - al di là degli insulti con i quali condisce gli attacchi a singole personalità della politica nazionale e locale - poggia proprio su questo sentimento di rancore che può essere sia di natura individuale che appartenere a interi gruppi sociali. Ha scritto Lucia Annunziata, sempre su La Stampa: "L'antipolitica ha battuto nei mesi scorsi su una pubblicistica moraleggiante, descrivendo le élite politiche con categorie ineffabili, e crudeli - salotti, radical-chic - descrivendo una società divisa in due, con da una parte un luogo dorato e quieto, di scambi di parti, di ruoli e di favori, dall'altra il luogo dei bisogni reali, concreti e solidi, della gente". Da una parte, quindi, le caste e dall'altra il popolo. Ma perché la casta e le caste sono state identificate sia sul piano nazionale che locale con i governi di centro-sinistra? E comunque perché è stato questo schieramento a rimmetterci le penne? Non solo perché le regole di trasparenza e partecipazione e la promesse di egualitarismo e di uno "Stato amico e padre" dovrebbero far parte (hanno fatto parte) del programma della sinistra ma soprattutto perché agli occhi di chi sceglie la sinistra le pensioni parlamentari, le macchine blu, il balletto degli incarichi che in genere riguardano sempre le stesse persone - la cosidetta "mastelllizzazione" dei partiti - diventano i simboli della disparità dei loro rapporti con chi li rappresenta. E avviene il distacco.
Questi fenomeni e ancor più i contenuti simbolici con i quali vengono rappresentati sono da prendere in seria cosiderazione anche dalle nostre parti, dove pure restano forti i valori etici e morali diffusi dalla sinistra. Il problema, infatti, non sta solo in ciò che i politici concretamente fanno ma in come vengono rappresentati e, alla fine, percepiti. Il centrosinistra e il Pd sono chiamati a riflettere su questi argomenti proprio mentre, come stanno facendo, costituiscono i loro gruppi dirigenti.

26 maggio 2008

Bondi e le brutte figurine

In una delle sue prime uscite da ministro Bondi ha rivendicato la proprietà di Don Lorenzo Milani che dovrebbe, quindi, esser prontamente dalla sinistra restituito a lui e alla sua Casa. Insieme a Don Milani la sinistra dovrebbe prontamente restituire altri territori culturali e morali indebitamente a suo tempo annessi, come l’opera e il pensiero di Giorgio La Pira e Padre Ernesto Balducci. Si capisce ora perché Bondi è stato nominato ministro dei beni culturali: Berlusconi vuole ricomporre il Pantheon di Casa e ha dato mandato al suo uomo di cultura di impossessarsi di nomi di peso: basta con le veline e le soubrette, servono pensatori e uomini di azione. D’altra parte Berlusconi e Bondi si sono messi a giocare un gioco che in Italia è assai noto e praticato, quello delle Belle Figurine. Mentre Pasolini viene rivendicato da certi cattolici per la sua "adesione alla tradizione cristiano-rurale" si annunciano aste per filosofi, santi e navigatori purché abbiano un passato da personaggi di sinistra. Una sola domanda mi sorge a proposito del colpo di teatro di Bondi: è la stessa che si è posto oggi, su La Stampa, Marco Belpoliti: "Don Milani di sinistra? Io credo che i suoi interpreti non abbiano mai letto nulla di lui". Così come, sostengo io, nulla sanno di Padre Balducci, figlio dell’Amiata, che non solo ha scritto pagine memorabili sulla pace e sul ribellismo dei popoli oppressi ma è stato anche condannato a sei mesi di reclusione per aver scritto, nel 1963, un articolo a favore dell’obiezione di coscienza. In questo gioco delle figurine sarebbe bene che Bondi e soci lasciassero stare simili personalità e si accontentassero di ritrovarsi nelle loro fila i nani e le ballerine di turno. Si accontentino di Venditti.

2 maggio 2008

Era sempre lui a dirci come stava

Il saluto ad un caro amico e ad un grande collega

Era sempre lui a dirci come stava, a dettagliare, come se stesse redigendo un bollettino medico, il suo stato di salute. Lo faceva con la meticolosità di chi l’arte medica la conosce bene per le molte frequentazioni amicali e culturali e per averla saputa ben divulgare in anni e anni di onorata professione. Lo faceva con semplicità e ironia ma poi, per non metterci a disagio e quasi a ripagarsi e ripagarci della pena inflitta, ci conduceva per mano nei profondi meandri di una sconfinata memoria urbana fatta di persone e di affetti, di intrecci politici e culturali, dipanando con la maestria del narratore, anche le storie a prima vista inestricabili. Sapeva tutto di Siena, della sua politica e del suo giornalismo, perché conosceva davvero la città, quella alta e quella bassa, e perché conosceva i suoi polli, quelli ruspanti e quelli di allevamento, quelli che erano avvezzi a chinar la testa e quelli che sapevano tenerla dritta, senza ricorrere ai mutevoli giochi di prestigio. Negli ultimi tempi la sua proverbiale e sorridente ironia (autentica, perché poggiava sul pilastro dell’autoironia) aveva lasciato il posto ad una malinconia esistenziale. Sicuramente questo stato d’animo gli derivava dall’esser lui il narrante di una “Cronaca di una morte annunciata” - la sua - ma anche dal fatto che vedeva crescere smisuratamente la malapianta della mediocrità e sfiorire la passione civile. Ieri, Primo Maggio, non è stato più lui a dirci come stava. Nel silenzio se ne era andato, con il suo solito stile.

20 aprile 2008

Vuoto di memoria

Non ho voluto commentare a caldo il risultato elettorale. Preferivo rifletterci su, parlarne con qualche amico, cercare di decifrare l'Italia che è venuta fuori dalle urne: si tratta davvero di un'Italia "imprevista"? Se l'è chiesto Aldo Schiavone, con il suo articolo uscito su Repubblica di ieri: per lui si è trattato davvero dell'emersione di una faccia imprevista del Paese, frutto di una transizione che ne ha spostato l'asse politico e culturale, quasi modificandone la sensibilità. Si vive l'oggi, rimuovendo un passato che non sembra più esistere. L'intero '900 è passato dall'ambito della memoria, calda e attiva, a quello della storia, fredda e lontana. Un mutamento che Bossi e Berlusconi, a mio avviso, non hanno soltanto intercettato. Il loro (soprattutto quello di Berlusconi) è stato un ruolo attivo in questo cambiamento. Tutto accade ora, tutto è in diretta: basta guardare a come vengono date le notizie sulle violenze accadute negli ultimi giorni a Roma. Veri e propri spot elettorali che cancellano in diretta la memoria di come è stata governata la città negli ultimi anni, a vantaggio di quelli che fino a poco tempo fa, forse sbagliando, appellavamo come neofascisti.

30 marzo 2008

arde la fiamma olimpica

Il viaggio del fuoco di Olimpia è cominciato. La fiaccola, però, è attesa dall'incendio tibetano. Quello che sta accadendo in Cina non è più tollerabile, ma la strada migliore, probabilmente, non è quella del boicottaggio dei giochi, invocato da più parti.
E' più giusto andare, per documentare, oltre allo straordinario spettacolo agonistico che offre l'appuntamento olimpico, anche la situazione della Cina, senza reticenze e filtri di regime.
Un'informazione che faccia il suo mestiere fino in fondo, con coraggio, per rompere qualche velo sulla reale situazione in Tibet e sullo stato della democrazia e della libertà nel paese che ospiterà le Olimpiadi. Invece di stare a casa, insomma, si vada in forze, con gli occhi ben aperti e le penne pronte a rendere un servizio alla verità.

26 febbraio 2008

Novità editoriali

Esce da ieri a Roma, Milano, Verona e Bergamo, prossimamente anche a Brescia, il nuovo quotidiano gratuito DNews.
Diretto, come già Epolis, da Antonio e Gianni Cipriani, DNews progetta una forte integrazione col web, attraverso il quale cercherà di stabilire un dialogo fruttuoso e innovativo con i lettori.

Tornerà in edicola nel 2008, invece, lo storico quotidiano romano Paese Sera.
Chiuso dal 1994, Paese Sera aveva conosciuto momenti di grande popolarità, ospitando firme prestigiose: da Tullio De Mauro a Andrea Barbato, da Umberto Eco a Gianni Rodari, tenendo a battesimo cronisti divenuti famosi, come Maurizio Costanzo e Aldo Biscardi.

8 febbraio 2008

"It's a picture of a man at the end of a line"


E' la fotografia che ha vinto il World Press Photo 2007. La foto, scattata dal fotografo inglese Tim Hetherington il 16 settembre 2007, ritrae un soldato americano al Restrepo bunker nella valle Korengal in Afghanistan. Secondo la giuria l'immagine mostra esaustivamente la sfinitezza di un uomo e quella di una nazione.

6 febbraio 2008

Celo, celo, manca


Sono tornate le figurine, grazie ai Fedelissimi.

25 gennaio 2008

E' una questione di stile

Una cosa sono le alterne vicende della politica, altra è il degrado etico e di stile del giornalismo italiano, che istiga all'odio e alla violenza.





19 gennaio 2008

15 gennaio 2008

Un ricordo

Oggi è morto un amico, Marco Dinoi, un giovane studioso che era stato nostro studente e che oggi insegnava con noi nelle aule della facoltà e con il quale si discuteva spesso non solo di cinema ma anche di pace e di Palestina. Mi piace ricordarlo così, non solo come giovane studioso ma come giovane impegnato sui temi della nostra società.

7 gennaio 2008

Parla come mangi

Apro il giornale e vedo una lunga intervista di Stefano Bisi al coordinatore del nascente Partito democratico. Leggo il titolo e, da buon democratico, mi allarmo. Il Corriere titola: “Qui c’è chi non vuol far nascere il Pd”. Roba grossa, direbbe qualunque commentatore politico. Cerco di capire il perché e il per come si possa essere arrivati a tal punto di rottura: una diversa visione politica sullo sviluppo della città? Pareri divergenti sulla proposta di rivedere la legge sull’aborto? Idee contrapposte sull’attuale gestione del Policlinico? Niente di tutto ciò. Mi arrovello cercando di capire un po’ di più quali sia il reale contendere di questa disfida, come d’altronde fa lo stesso intervistatore, incalzando, come si dice in gergo, il dirigente politico. Ma Bezzini sintetizza così i motivi della crisi. Virgoletto ciò che è stato detto e scritto: “A Siena, la costruzione del Partito democratico è più complicata rispetto alle altre realtà della nostra provincia. La decisione di prevedere una doppia reggenza provvisoria degli attuali gruppi consiliari che fanno riferimento al Pd è avvenuta grazie a un accordo che ha visto tutti convergere sulla stessa posizione. Non nascondo che l’intesa non ha entusiasmato neanche me, ma è stata comunque un primo passo per andare nella giusta direzione. Trovo però sconcertante che, dopo pochi giorni, qualcuno abbia voluto riaprire la questione. La sensazione è che si stia lavorando per allargare le distanze piuttosto che ridurle, provocando così instabilità al quadro istituzionale e facendo del male alla città”.
Dunque, ricapitoliamo e traduciamo: Ds e Margherita non sono riusciti a mettersi d’accordo per costituire un unico gruppo consiliare al Comune di Siena e, in attesa di tempi migliori, hanno deciso di avere una doppia reggenza (un capogruppo per i Ds e uno della Margherita). Ma due galli in un pollaio così ristretto sono troppi e si sono subito messi a beccarsi. Così nasce un “nuovo” partito.
Nel leggere queste poche e nebulose righe, la mia scarsa memoria, ormai tutta giornalistica, mi ha indotto a rileggere una nota emessa qualche giorno prima dalla Margherita di Siena che chiudeva così: “Prendiamo atto, con rammarico, che i comportamenti successivi in sede istituzionale non sono stati conseguenti al percorso chiaramente delineato in sede politica. In considerazione di ciò, si invitano i livelli politici a una verifica puntuale di quanto già concordato per raggiungere gli obiettivi prefissati, richiamando tutti i soggetti coinvolti a non ostacolare, con atteggiamenti incomprensibili e pretestuosi, il cammino già avviato”.
Ho fatto un po’ di fatica ma, comparando i testi, sono riuscito a capire che non corre buon sangue, a Siena, tra gli ex Ds e gli ex Margherita e questi ultimi hanno, per primi, mosso le acque dopo l’accordo comunemente raggiunto. Ma su che cosa ci si stia dividendo non l’ho proprio capito. Almeno che non si tratti di qualcosa che non può esser detto pubblicamente e che quindi il vero contenuto del contendere sia conosciuto solo, come dice l’intervistatore, dai “frequentatori delle stanze”. Anche perché nell’assemblea pubblica che si è svolta qualche settimana addietro ai Mutilati tutti avevano osannato il “nuovo” che avanza e nessuno aveva fatto il minimo accenno alla latente crisi.
Se questa è la “nuova” politica del “nuovo” partito qualche dubbio in più s’avanza a chi già dubbi aveva. Se questo è il “nuovo” linguaggio della “nuova” classe politica consiglio, ai comunicanti, di rileggersi un libricino che molti, ma molti anni fa, quando dovevo comunicare la politica dei comunisti italiani, a me fu consigliato da Aurelio Ciacci: “Il lavoro culturale” di Luciano Bianciardi. A me, servì; perché mi insegnò a parlare come mangiavo.

6 gennaio 2008

David, un rivoluzionario senza rivoluzione

Due libri riaccendono il dibattito - Il processo e la condanna del Sant’Offizio prima dell’uccisione - Padre Pio, il misticismo e la religiosità popolare - Il nitido giudizio di Padre Balducci

Torna il “caso Lazzaretti”: sulla storia del profeta dell’Amiata, sulla sua vicenda umana, sulle sue visioni mistiche, sul suo pensiero e sulle pratiche sociali si ritorna a riflettere e si accendono nuove polemiche. Due libri, in particolare, hanno contribuito a riproporne la complessa vicenda umana e storica: il primo, di Luca Niccolai, è interamente dedicato al profeta dell’Amiata; l’altro, di Sergio Luzzatto, è in realtà su Padre Pio ma, nel secondo capitolo, un ampio spazio è dedicato proprio ai giudizi dati su David Lazzaretti da esponenti del mondo religioso italiano.
La novità del primo volume deriva dal fatto che sono stati rintracciati nell’archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede i documenti del processo che il Sant’Offizio intentò contro David. Si tratta di migliaia e migliaia di pagine raccolte in appositi faldoni. Quattro amiatini (Mauro Chiappini, responsabile della Fratellanza Giurisdavidica, cioè di quel resta del culto di David, Marcello Bianchini, Niso Cini e Luca Niccolai) si sono dati da fare per mettere il naso nelle preziose carte e, dopo avere superato non pochi fastidi legali e burocratici, sono riusciti a leggere e fotocopiare le parti più interessanti del processo. Luca Niccolai, partendo proprio da questa documentazione, ha scritto un volume che aggiunge un bel po’ di notizie sulla vita e sugli ultimi anni del profeta dell’Amiata (David, Lazzaretti, davanti al Sant’Offizio, edizioni Effigi).
Marcolino Cicognani, un prelato con la stoffa del grande inquisitore, nella sua relazione contro il barrocciaio di Arcidosso muove accuse lecite e illecite: da quella di praticare il comunismo (allora era ancora uno spettro che si aggirava per l’Europa) a quella di intrattenere rapporti con i movimenti eretici del vecchio continente; da quella di essere un truffatore a quella di sedurre e compromettere le giovani contadine del gruppo. “Da dieci anni mena rumore - scrive il prelato nella sua nota accusatoria - e fa non solo parlare di sé, specialmente per le sue visioni, profezie, strane dottrine religiose e sociali”.
Il processo viene imbastito nel 1877, cioè nel pieno dell’esperienza della “Società delle famiglie cristiane”, l’originale comunità fondata quattro anni prima: David era riuscito con il suo verbo a portare sul Monte Labbro centinaia di contadini e di diseredati con le loro famiglie per vivere e lavorare insieme. Su quella comunità si erano appuntati gli occhi delle autorità religiose e governative per i criteri collettivistici ai quali si ispirava che prevedevano la condivisione del lavoro e anche la parità dei sessi.
Il processo finisce male, il 1 di aprile, con David Lazzaretti scomunicato e con i due sacerdoti che l’avevano seguito sospesi a divinis. Il resto della storia è arcinota: David si ritira sul Monte in mezzo a nuove, gigantesche difficoltà e, a poco più di un anno da quella sentenza, viene ucciso dai carabinieri mentre guida una processione. La condanna, la passione e la morte. Altrettanto noto è quel che accade dopo la morte di David, con la Chiesa ufficiale intenta solo a tentar di sradicare dal popolo la fede in David; con lo studioso positivista Lombroso che ne studia il cranio per dimostrarne la pazzia; con la magistratura e il governo alle prese di lunghi processi e dibattiti parlamentari animati dal deputato socialista Cavallotti. Ma nessuno riuscirà ad intaccare quella complessa figura tanto che, qualche decennio più tardi, lo stesso Antonio Gramsci scriverà pagine indelebili sull’esperienza del profeta amiatino e sulla religiosità popolare. A cent’anni dall’uccisione, nel 1978, mentre l’Amiata ne ricordava la figura anche con uno spettacolo della Compagnia di Leoncarlo Settimelli, la rivista Civiltà Cattolica, nel 1978, ancora così dipingeva David: “Questo sciagurato era riuscito a fondare una nuova setta, non dissimile a quella di Fra Dolcino menzionato dall’Alighieri nel canto XXVIII dell’Inferno ed ebbe a finire di mala sorte come il Dolcino”. Guarda caso Fra Dolcino era ammogliato così come lo era Lazzaretti e predicava l’approccio diretto a Dio senza l’intermediazione delle strutture ecclesiastiche.
Più tardi, molto più tardi Agostino Gemelli, grande medico cattolico - è di questo che si occupa il volume di Luzzatto - nel redigere la famosa requisitoria nei confronti del santo di Pietralcina citerà più volte l’esperienza di David più che altro, non condividendo le idee lombrosiane, per distinguere i veri mistici dai “mistici da clinica psichiatrica”. La fede e la follia: un fenomeno che viene percorso con una rilettura della vita e delle opere di tanti mistici e santi che hanno fatto grande la Chiesa, da Paolo di Tarso a Ignazio di Lodola.
In questo ultimo approccio, molto unilaterale e funzionale alla narrazione su Padre Pio, mancano quei riferimenti che ci si sarebbero attesi sul millenarismo (le importanti pagine di Hobsbawn) e sulla religiosità popolare. Chi era davvero David? Tutti dimenticano, ad esempio, la sua giovanile passione che lo portò a combattere, a Castelfidardo, con indosso la camicia rossa dei garibaldini o sui ripetuti viaggi in una Francia zeppa di movimenti ribellistici ed eretici. E cosa ha davvero rappresentato? Come non considerare il fatto che fino a qualche tempo addietro, in montagna, si continuava a cantare la sua storia con queste parole ”Lassù sull’Amiata/ è morto Gesù Cristo,/ da vero socialisto/ ucciso dai carabinier”?
Mi è capitato più volte di parlare di David Lazzaretti con Padre Balducci. In una lunga intervista che sulla fine degli anni settanta mi rilasciò e nella quale si parlava di David, e dei profondi cambiamenti che stavano investendo la nostra montagna, ebbe a dire parole precise che assumono ora maggior rilievo proprio per il dibattito che si è riacceso: “Per rileggerei il fenomeno David utilizzerei un po’ le categorie che lo stesso Marx, e dopo di lui Gramsci, hanno fornito sul delicato argomento della religiosità popolare. Nell’esigenza religiosa popolare non c’è soltanto il riflesso di una miseria che si ribalta nel sogno di una realtà utopica, di una realtà impossibile e quindi assolve ad una funzione consolatoria e quindi alla fine negativa. Ma c’è anche un altro elemento; essa esprime una protesta contro la miseria esistente e quindi è lo sgorgare di un’utopia umana che in forme mitiche contiene già in sé un progetto politico. La transizione dalla fase mitica alla fase razionale segna una continuità e insieme un distacco da quel momento. Quindi io penso che in “quel comunismo” ispirato alle prime comunità cristiane (non dobbiamo dimenticare che l’utopia del Lazzaretti non rimase semplicemente un’agitazione luminosa delle coscienze ma diventò operazione concreta con la nascita della cooperativa ispirata a criteri comunistici) aveva solo il difetto di essere fuori contesto, di essere cioè “una rivoluzione senza la rivoluzione”.

(Pubblicato sul Corriere di Siena del 6/1/2008)

4 gennaio 2008

Si chiamavano corsivi

Un giornale cittadino, il Corriere di Siena, oltre a far cronaca sui problemi della città, ama sovente divertirsi con l’insaziabile esibizionismo dei senesi. In questi giorni festivi sta pubblicando le foto segnaletiche delle persone (personaggi?) di cui sentiremo parlare nell’anno in cui abbiamo appena messo piede. Ce n’è per tutti i gusti: politici in ascesa e in discesa, religiosi, sportivi, amministratori (a Siena tutti amministrano o amministreranno qualcosa), soubrettes in posa, uomini di cultura e di coltura, dispensatori di premi e cotillons. Si dice - all’Angolo dell’Unto, naturalmente - che molti pur di apparire nel gran bazar delle caste riunite siano disposti a vendere la camicia o a chiedere intercessioni. L’accorto inventore del gioco, che può essere considerato come un vero e proprio reality in salsa senese, con tanto di nomination, ne avrà così ancora per diversi giorni. Una sola domanda sorge: quando alfine conosceremo tutti i nomi e i volti di questi 101 cittadini, il promoter svelerà anche chi è la Crudelia Demon senese?

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