29 luglio 2008

Una mostra per risvegliarci dal "sonno della memoria"

Ad Abbadia San Salvatore le immagini di quel lontano 14 luglio del Quarantotto

Fu una “rivoluzione mancata”? O fu, invece, una coraggiosa e pronta risposta delle masse popolari a chi, attentando alla vita di Palmiro Togliatti amato capo dei comunisti italiani, voleva colpire la libertà democratica appena conquistata? Per mezzo secolo generazioni di comunisti e di democristiani - ma anche gli studiosi di storia contemporanea - si sono confrontati sulla questione. Dietro le dispute non c’erano, come sappiamo, solo diverse letture storiche degli accadimenti (l’attentato a Togliatti e le drammatiche giornate di quel luglio infuocato) ma anche giudizi che i due maggiori partiti davano sul quadro politico nazionale e sugli scenari internazionali.
Era un’altra Italia, quella. Era una nazione che con eccessiva e obbligata rapidità si era gettata alle spalle lo spirito unitario che aveva animato gran parte dei movimenti di liberazione nazionale; una nazione profondamente divisa in un mondo si cui si stavano erigendo i robusti muri della guerra fredda. Si stava “di qua o di là”, con miti contrapposti sia nelle grandi scelte che nella vita di tutti i giorni: America o Russia, Coppi o Bartali, Vespa o Lambretta. Per oltre mezzo secolo, da quell’estate del Quarantotto, due “sub-culture”, cattolica e comunista (l’espressione è mutuata da un attento studioso di media, Carlo Sorrentino) hanno formato uno schema mentale, politico e ideologico, che ha garantito la sopravvivenza e lo sviluppo del nostro sistema democratico togliendo però linfa riformatrice e cristallizzando le classi dirigenti. Oggi quel paradigma ideologico è stato gettato alle ortiche e questo ci permette di apprezzare a pieno anche la mostra fotografica realizzata dal Centro culturale Polis e dal Comune di Abbadia San Salvatore sui drammatici fatti del ‘48. Non a caso, in una sorta di “avvertenza per l’uso” Franco Ceccuzzi, presentandola, scrive: “La rievocazione non ha alcun carattere ideologico o apologetico, e meno che mai, può avere l’ambizione di una rilettura storiografica… Sbaglierebbe chi si sentisse ancora oggi da una parte o dall’altra della barricata rispetto al 18 aprile del ’48 o al 14 luglio, o alla collocazione internazionale di quegli anni”.

“I RIBELLI DELLA MONTAGNA”
Rivedere quelle foto e cavalcare la cronaca di quei giorni è istruttivo per i giovani ma è scioccante per quelli, come me, che conoscono a menadito quel terribile tratto della nostra storia nazionale: la sequenza delle foto ti immerge, infatti, tra volti conosciuti e parole consuete. Si è come catapultati nei meandri della memoria. A chi si iscriveva al PCI sull’Amiata alla fine degli anni Sessanta del Novecento quelle storie venivano raccontate dagli stessi protagonisti nelle “veglie” in sezione o durante le Feste de l’Unità (è giusto che nel convegno - già annunciato dagli stessi organizzatori per il prossimo ottobre - venga dato ampio spazio alle testimonianze orali di coloro che vissero quelle giornate) e comunque rappresentavano una sorta di filo rosso con il quale si intrecciavano appartenenze e dispute teoriche.
Quando Gino Serafini, nei primi anni Ottanta, pubblicò un volume sul tema rifiorirono fitte conversazioni pubbliche e di gruppo sui “ribelli della montagna”. Il confronto riguardava non solo l’anatomia della rivolta ma il contesto nazionale e locale in cui quei fatti erano avvenuti e più in generale alcuni tratti sociologici e antropologici delle stesse genti della montagna, proprio in quegli anni alle prese con una delle più gravi crisi del comparto minerario. In quegli stessi anni si rinfocolò anche la passione per la figura di David Lazzaretti quale espressione alta e libera del “ribellismo” di quelle popolazioni. Era stato, a dire il vero, lo stesso segretario comunista a citare, nel discorso che tenne ad Abbadia subito dopo la sua guarigione nel giugno del ‘49, la figura del “profeta”. Davanti alle folle che lo acclamavano Togliatti, con il forte senso propagandistico che caratterizzava i suoi comizi, quasi si immedesimò in quella figura epica. Scrive Tommaso Detti nella prefazione del libro di Gino Serafini: “Certo, paragonando implicitamente se stesso al “santo Davide”, il capo del PCI dava prova di una buona dose di spregiudicatezza; ma quando accostava i fatti del 14 luglio a quell’episodio ormai lontano della storia del Monte Amiata, egli non si limitava a sollecitare l’emotività dei suoi ascoltatori, né indulgeva soltanto sulla propria formazione storicistica. Benché fosse mosso da un preciso intento politico, Togliatti sapeva bene che la grande forza del suo partito e dell’intero movimento operaio italiano - specie in una regione come la Toscana e in una zona come il Monte Amiata - riposava in gran parte sulla loro capacità di innestarsi su movimenti di lotta e correnti ideali preesistenti e di assorbirli”.

MA FU DAVVERO UN’INSURREZIONE?
Quella discussione ne riprendeva altre che si erano andate ciclicamente ripetendo ogni qualvolta studiosi o politici toccavano l’argomento. Era stato così, ad esempio, quando Sandro Orlandini, nel 1976, con un suo libro aveva posto un interrogativo che aveva molto turbato i dirigenti comunisti di allora: la risposta popolare all’attentato a Togliatti, e le forme che aveva assunto in provincia di Siena, poteva esser letta come un tentativo di “insurrezione proletaria”? Vittorio Bardini, che nel ‘48 si trovava alla testa dei comunisti toscani, un anno dopo, replicava con un libro autobiografico che non si poteva parlare di insurrezione giacché i fatti dimostravano che era stato proprio l’intervento dei dirigenti di partito ad impedire che la situazione degenerasse ulteriormente.
Su un punto tutti i commentatori ormai convengono: la durezza dello scontro elettorale dell’aprile di quello stesso anno con la grande disillusione del Fronte Popolare e la grande vittoria della DC di De Gasperi, la rottura dell’unità sindacale e quella ben più drammatica dell’unità nazionale, l’inizio della guerra fredda erano bombe ad orologeria che prima o poi sarebbero deflagrate provando drammi e lutti. La tensione accumulatasi durante la campagna elettorale del 1948 esplose il 14 luglio quando un giovane di destra, Antonio Pallante, attentò alla vita di Togliatti ferendolo gravemente. In alcune città scoppiarono rivolte spontanee, in molte fabbriche i lavoratori incrociarono le braccia, l’intero Paese fu scosso nella profonda della sua anima. “Le ore undici del quattordici luglio/ Dalla Camera usciva Togliatti/ Quattro colpi gli furono sparati/ Da uno studente vile e senza cuor…” così recita la prima strofa di una canzone popolare che per anni fu cantata in tutte le piazze e le Case del Popolo e recentemente riproposta da Francesco De Gregori e Giovanna Marini.

LE IMMAGINI DELLA DURA REPRESSIONE
La reazione più violenta si ebbe proprio ad Abbadia San Salvatore “dove i minatori insorsero - come racconta Aurelio Lepre ne “La storia della Prima Repubblica” - uccidendo un poliziotto e un carabiniere e interrompendo i contatti telefonici tra Nord e Sud”. La repressione fu dura e immediata: ad Abbadia San Salvatore intervennero polizia ed esercito. “Un cinegiornale Incom di quei giorni - scrive ancora Lepre - mostra le colonne motorizzate occupare il paese: l’immagine dei minatori portati via tra i poliziotti e gli agenti come prigionieri di guerra aveva un valore di dissuasione per le sinistre e di rassicurazione per i moderati”. Sono le stesse foto che corredavano la sfrontata inchiesta de L’Europeo e che fecero il giro dei rotocalchi di tutto il mondo.In un recente volume Stefano Rolando, studioso di comunicazione pubblica, ha tentato un bilancio generazionale di coloro che hanno attraversato oltre mezzo secolo di democrazia per approdare, come dei moderni Ulisse, laddove la barca doveva essere approdata, senza fati maligni e venti avversi, già da tanto tempo. Dice Stefano Rolando di averlo scritto proprio per reagire al “sonno della memoria che pesa sul nostro passato prossimo”. Le stesse parole possiamo spenderle per iniziative come quella di Abbadia San Salvatore.

2 giugno 2008

Rancore e identità

Molti osservatori ritengono che il rancore abbia giocato un ruolo importante nel comportamento elettorale degli italiani. Un rancore di tantissimi elettori verso i Palazzi o verso l’indistinta Casta; rancore per tasse ritenute troppo esose o per provvedimenti di riforma male sopportati da questa o da quella lobby ( vi ricordate la ribellione dei tassisti di Roma?); rancore per uno Stato incapace di difendere i cittadini dal caos e dalla violenza importata dai nuovi barbari, immigrati o rom che fossero.
Ma cos’è il rancore? Così lo definisce Tullio De Mauro nel suo Dizionario: "sentimento di avversione profonda, di risentimento verso una persona, un ambiente, una situazione, maturato in seguito ad una offesa o a un torto e non manifestato apertamente”. Questo sentimento sembra essere uno dei tratti unificanti della nuova ondata populistica che ha premiato il centro destra e che sta contrassegnando molti comportamenti sociali di queste settimane, dall’inquietante vicenda del quartiere romano del Pigneto alle prepotenze dei nuovi neo-nazi all’Università La Sapienza.
Staremmo dunque attraversando una fase nella quale parti consistenti di cittadini mal sopportano i disagi economici e le frustrazioni politiche derivanti dai profondi cambiamenti in atto come, ad esempio, quelli provocati dalla globalizzazione e dalle massicce migrazioni che ne derivano. In queste fasi di regresso sociale la nostalgia di "comunità" può portare ad un diffuso risentimento verso tutti coloro che la ostacolano o che la minacciano.
In un libro che sta avendo riscontro sia tra i lettori che tra gli analisti politici, Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, Aldo Bonomi traccia i luoghi e individua i fattori del profondo cambiamento che ha investito il Nord Italia, una sorta di “Apocalisse culturale” nella quale si sono alimentati i tanti malesseri sui quali la Lega di Bossi ha costruito le proprie fortune politiche ed elettorali. Un’apocalisse nella quale molti si sono sentiti orfani della politica che si praticava nella grande fabbrica fordista (pensiamo alle divagazioni - anche in campagna elettorale - di certa sinistra radicale o ai disagi che ne sono derivati al sindacato). Un'apocalisse che ha creato città senza limiti, fatte di non luoghi dove le persone non riconoscono più i posti abituali, dalle strade alle piazze, con le comunità che le abitavano. Città estranee per di più occupate da stranieri portati dal vento della globalizzazione, lo stesso vento che la Lega di Bossi ha per prima fatto sponda a questo malessere, proponendo una versione più radicale e più raffinata della già nota proposta politica basata sull'identità. Berlusconi, con indiscusso fiuto politico, ha offerto una cornice ideologica a queste spinte leghiste, con la teoria “dell’individualismo proprietario” e il peso del suo potere mediatico. Infine l’abile Tremonti ha chiuso il cerchio offrendo una visione economica e sociale di chiara marca protezionistica agli effetti più negativi della globalizzazione: una risposta rilevante, forse l’unica venuta dalla destra italiana, alle elaborazioni dei “no global” di qualche tempo fa.
Insomma, parafrasando il vecchio Marx, potremmo recitare: "spaventati di tutto il mondo unitevi". Unitevi per esaltare il localismo e l'intoccabilità del giardino di casa (per poi, magari, pagarne le conseguenze come in Campania); unitevi contro ogni forma di diversità; unitevi contro chi minaccia la vostra sicurezza; unitevi contro il pericolo dei barbari che ci circondano e che minacciano la nostra integrità. “Combattere qualcuno - ha recentemente ricordato Umberto Eco - è anche un modo per definire la nostra identità”. Cosa ci dicono le "ronde verdi" a Colle Val d’Elsa, se non questo?
Anche Barbara Spinelli, commentando il risultato del voto su La Stampa, ritiene che tra le cause della vittoria del centro destra debba essere inserito il risentimento: “... Tra esse c’è il risentimento, questa passione che dà immenso ardimento all’individuo che si sente abbandonato e solo nella società, e che il massimo della potenza la raggiunge quando diventa risentimento territoriale, tribale, di classe”.
Il diffuso senso di risentimento e di rancore (contro il quale tutta la sinistra, compresa quella locale, dovrebbe prontamente vaccinarsi) è dunque una delle cause che sta alla base dell’antipolitica e porta, chi lo pratica, ad individuare nelle caste e nelle castarelle i nemici da combattere. Ma chi ne trae vantaggio? L’antipolitica - al di là degli insulti con i quali condisce gli attacchi a singole personalità della politica nazionale e locale - poggia proprio su questo sentimento di rancore che può essere sia di natura individuale che appartenere a interi gruppi sociali. Ha scritto Lucia Annunziata, sempre su La Stampa: "L'antipolitica ha battuto nei mesi scorsi su una pubblicistica moraleggiante, descrivendo le élite politiche con categorie ineffabili, e crudeli - salotti, radical-chic - descrivendo una società divisa in due, con da una parte un luogo dorato e quieto, di scambi di parti, di ruoli e di favori, dall'altra il luogo dei bisogni reali, concreti e solidi, della gente". Da una parte, quindi, le caste e dall'altra il popolo. Ma perché la casta e le caste sono state identificate sia sul piano nazionale che locale con i governi di centro-sinistra? E comunque perché è stato questo schieramento a rimmetterci le penne? Non solo perché le regole di trasparenza e partecipazione e la promesse di egualitarismo e di uno "Stato amico e padre" dovrebbero far parte (hanno fatto parte) del programma della sinistra ma soprattutto perché agli occhi di chi sceglie la sinistra le pensioni parlamentari, le macchine blu, il balletto degli incarichi che in genere riguardano sempre le stesse persone - la cosidetta "mastelllizzazione" dei partiti - diventano i simboli della disparità dei loro rapporti con chi li rappresenta. E avviene il distacco.
Questi fenomeni e ancor più i contenuti simbolici con i quali vengono rappresentati sono da prendere in seria cosiderazione anche dalle nostre parti, dove pure restano forti i valori etici e morali diffusi dalla sinistra. Il problema, infatti, non sta solo in ciò che i politici concretamente fanno ma in come vengono rappresentati e, alla fine, percepiti. Il centrosinistra e il Pd sono chiamati a riflettere su questi argomenti proprio mentre, come stanno facendo, costituiscono i loro gruppi dirigenti.